Secondo me questa cartella di Bartus Bartolomes segue questo tragitto: raccoglie i reperti, i campioni, i rimasugli, le scorieche una certa quotidianità visiva lascia nello spazio e nel tempo, per poi riprodurli grafiticamente.

Parole graffiate dunque nella loro disponibilità alla significazione, come occupanti un certo spazio scenico e accanto immagini alfabetizzate, meglio forse vocabolarizzate, tendenti ad essere vettori impersonali di significazione.

Ci troviamo un presenza di agglomerati di simbologie (vedi j seni-montagne) che però non chiedono che si entri nei privati appartamenti. La spezzettatura e la illeggibilità dei seni-montagne , immagine ricorrente e rilevante nella raccolta, dichiara da se medesima il suo caos sebbene certi lessemi presuntuosi sovrastino questa montagna come nuvole, non tuttavia estremamente buie.

La scrittura de Bartolomes è bambina, non tanto nella grafia o nelle possibili macchie sul quaderno, ma in quanto è sempre “ulteriore”, “compensatrice” di un qualche cosa che alla immagine dovrebbe mancare: è l’infantilismo a la genuinità del grafito, dove quasi sempre l’immagine viene corredata dalla scrittura con funzione didascalica (o, nei graffiti d’arte, antididascalica).

In ogni caso l’impulso del messaggio si avverte, il materiale verbo-visuale offerto lascia presagire e intuire nello stesso tempo una evoluzione, un procedere: quello del consumo della nostra civiltà? quello del ritorno al prima? quello della dissociazione cronica e irreversibile dei nostri segni? Non è il caso di propendere per interpretazioni immobili, vista anche la estrema mobilità  del lavoro. In questo senso pregio primo di Bartolomes è quello di essersi staccato da una grammatica segnica prestabilita, dal codice infrangibile e di avere offerto  il suo visibile come semplice immaginabile, riempibile quindi de immagini o congetture “altre”. Si intuisce che tali lavori presuppongono la scena, si intuisce forse il farsi scena della immagine stessa si può anche ipotizzare l’abbandono della fissità del luogo de parte delle immagini (verbo-visuali) stesse.

In ogni caso la visualità elementare emerge, fa pesare anche la sua contingenza proprio come “occasione” di dire una particolarità, di narrare forse, visto che si parlava di scena, une evento del quotidiano che in questa maniera si storicizza, diventa tipo, segno per l’appunto di un precisissimo momento del vivere.

Per Guido Savio / Critico di arte: Reviste Carte secrète; Tam Tam; Abracadabra; ZETA Internacional.
Gennaio 1982